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Il caso Borsellino:L’informativa Caronte al centro della strage

Le motivazioni del Borsellino Quater mettono in luce un quadro più logico, spazza via complottismi di ogni genere, rivaluta “vecchie interviste” – come quella di Agnese Borsellino – e chiarisce che non ci fu nessuna “trattativa Stato-Mafia” che accelerò la strage; insomma, crea “Il caso Borsellino“.

Le motivazioni della sentenza sul “Borsellino quater” confermano quanto da noi pubblicato già nell’ottobre del 2019, la cosiddetta trattativa Stato Mafia – che già di per se sembra cadere a rotoli nelle varie sentenze –  non ha nulla a che vedere con la strage di Via D’Amelio.

Nelle motivazioni della sentenza, i giudici, scrivono nero su bianco alcuni punti fondamentali: il primo, dove si apprende che «gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva»; il secondo, che i giudici rilevano dalle dichiarazioni del “pentito Giuffrè”, in cui lo stesso parla di «sondaggi» con «personaggi importanti» effettuati da Cosa Nostra prima di decidere l’eliminazione dei magistrati Falcone e Borsellino; il terzo, ricordando i sospetti che lo stesso Paolo Borsellino il giorno prima dell’attentato aveva confidato alla moglie, quando le disse «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo …ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse»; il quarto, in cui i giudici rievocano: «non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal dott. Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo»; il quinto, attinente a quel Lipari della “Informativa Ros” e le parole sul dott. Giammanco, nella sentenza viene citato l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo «era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione maliosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”»; il sesto, «le inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale», cioè il dossier Caronte o Informativa Ros, inchiesta messa in piedi da Giovanni Falcone e dopo la sua morte nella strage di Capaci ripresa da Paolo Borsellino.

Le anomalie riscontrate dalla Corte sono tante, ma tutte le piste scartano la tesi sulla trattativa ed inseguono il capitolo mafia-appalti, ovvero gli interessi economici.

La sentenza segue un ragionamento logico, i giudici infatti confermano le condanne di primo grado nei confronti dei boss Vittorio Tutino e Salvo Madonia, oltre alle condanne dei falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci), e sempre nella sentenza si soffermano al punto chiave che avrebbe fatto tremare “Cosa Nostra”, il Maxiprocesso, ovvero l’interessamento dei due magistrati “Falcone e Borsellino” al “capitolo mafia-appalti”.

Le stragi di Capaci e via d’Amelio furono accelerate e la Corte ricordando che Lipari era un consulente  per i corleonesi che si occupava di pilotare gli appalti pubblici in modo da affidarli a imprese vicine ai boss, e che il suo nome risultava proprio nel dossier “Caronte” scaturito dall’indagine di Mario Mori e Giuseppe De Donno, condotta da Giovanni Falcone, richiamano la sentenza di primo grado e quei contrasti tra Borsellino e Giammanco che giravano sulla “delega, più volte sollecitata dal dottore Borsellino, conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita», ma non solo.

Nella sentenza, la Corte, viene rievocato l’incontro tra Borsellino e la dottoressa Lilliana Ferraro, quando insieme avevano anche parlato del rapporto “mafia-appalti” ricevuto, per mano dei carabinieri del Ros, dal Procuratore Giammanco e da quest’ultimo «irritualmente inviato al Ministero della Giustizia, tanto che il dott. Falcone (nel frattempo come noto in servizio al Ministero) ne aveva disposto l’immediata restituzione». Sulla questione viene precisato che «nel corso del dibattimento erano stati sentiti, come testi, anche i giudici Camassa e Russo i quali avevano riferito di un incontro avuto con il giudice Borsellino, intorno alla metà del mese di giugno, nel corso del quale quest’ultimo, con tono molto amareggiato e con le lacrime agli occhi, aveva detto loro che “qualcuno lo aveva tradito”».

Paolo Borsellino, dopo la morte dell’amico e collega Giovanni Falcone, aveva mostrato particolare attenzione al dossier  tanto che il dott. Ingroia, collega di lunga data del dott. Borsellino, nel corso della sua audizione del 12.11.1997 innanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta, nell’ambito del procedimento relativo alla strage ha dichiarato che il dott. Borsellino gli avrebbe riferito quanto segue:

poco prima di morire, ebbe dei colloqui, sia con Ufficiali dei Carabinieri che con taluni colleghi, per ricostruire la vicenda “mafia ed appalti” e che, certamente, ne aveva parlato con il suo collaboratore dell’epoca, Maresciallo Canale, e con l’allora Capitano De Donno ed aveva, altresì, intenzione di parlarne anche con il dott. Scarpinato”. (approfondimenti qui, qui, qui, qui, qui )

Nella motivazione della sentenza si legge «le inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale».

Insomma per i giudici non c’è spazio per la “trattativa”, e ribadiscono che «la strage di Via D’Amelio, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva».

Di certo, invece, l’accelerazione dell’uccisione del giudice Borsellino è da leggere nella sentenza della corte d’Assise di Catania: «poteva avere influito l’intervento di potentati economici disturbati nella spartizione degli appalti, la presenza di forze politiche interessate alla destabilizzazione, la necessità di umiliare lo Stato in modo definitivo e plateale».

La sentenza smonta la versione di Report

Sono state depositate le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta a conclusione del processo che si chiama “Borsellino Quater”. Dicono parecchie cose interessanti. Quattro sono le più importanti. La prima è che Borsellino non fu ucciso perché stava indagando sulla trattativa Stato-mafia. La seconda è che Borsellino è stato invece ucciso in parte per vendetta in parte per fermare alcune sue indagini. Quali?

La più pericolosa probabilmente era quella che riguardava il dossier mafia-appalti, costruito da Falcone e dal colonnello Mori, e che fino a pochi giorni dalla sua morte fu tenuto lontano da Borsellino (e poi archiviato, clamorosamente, dopo la sua eliminazione). La terza cosa che dice la sentenza è che Cosa Nostra è una entità autonoma, che non risponde ad altri poteri, anche se è molto influenzata soprattutto dai poteri economici. Infine, la quarta cosa che dice (collegata alle prime tre) è che a Borsellino, nella Procura di Palermo, facevano la guerra, probabilmente anche per il dossier mafia-appalti, e che la mafia era molto preoccupata del suo ritorno a Palermo dopo l’esilio a Trapani e Agrigento.

Sulla Trattativa Stato-Mafia bisogna ricordare che in questo momento nove sentenze hanno smantellato la tesi su cui è costruito quel processo e dopo quanto descritto con queste “motivazioni sulla sentenza del Borsellino quater”, si ribalta quanto ricostruito da Report.

La sentenza sulla Trattativa riporta quanto segue:

Nella sentenza – di ben 5.252 pagine – i giudici, a proposito dell’accelerazione sulla strage di via d’Amelio, scrivono «l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottore Borsellino» fu determinata «dai segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio».

Agli imputati si contestava inoltre il reato di cui all’art. 338 c.p. (aggravato ex art. 339 c.p. e ex art. 7 d.l. 152/91) perché, «per turbare la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano ed in particolare il Governo della Repubblica, usavano minaccia – consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali connessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni – a rappresentanti di detto corpo politico, per impedirne o comunque turbarne l’attività (fatti commessi a Roma, Palermo e altrove a partire dal 1992)».

La Rai ha mandato in onda, a proposito delle “menti finissime”, una inchiesta di Report che ricostruisce la trattativa Stato-mafia e le stragi del 1992 e del 1993.

Secondo i produttori le testimonianze inedite e documenti esclusivi hanno ricostruito per la prima volta in televisione il ruolo ricoperto da alcuni settori delle istituzioni nelle stragi del 1992 e in quelle degli anni precedenti, nonché un filo nero che collegherebbe l’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 alle bombe di Capaci e via D’Amelio in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, intrecciando: mafia, massoneria, terroristi di destra e servizi segreti deviati che avrebbero contribuito per anni ad organizzare e ad alimentare una strategia stragista che puntava alla destabilizzazione della democrazia nel nostro paese.

Quale verità affidare ai lettori, la ricostruzione minuziosa degli ultimi momenti e confidenze fatte dal giudice Borsellino alla moglie, oppure trame come la “Trattativa” che sta cadendo a pezzi sempre davanti alla giustizia?

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